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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Agonia sui ghiacci

1920

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Una cattedrale di ghiaccio e silenzio, un altare pagano dove la natura celebra la propria schiacciante, indifferente onnipotenza. Prima ancora che un film, Agonia sui ghiacci (titolo originale, ben più evocativo: Die weiße Hölle vom Piz Palü, L'inferno bianco del Piz Palü) è un'esperienza tellurica, un'immersione in un sublime così terrificante da sfiorare il sacro. La montagna, qui, non è uno sfondo, ma l'antagonista assoluto, un Leviatano bianco e immobile la cui unica arma è l'esistenza stessa. Arnold Fanck, pioniere e sommo sacerdote del Bergfilm tedesco, filma le Alpi non come un geografo, ma come un teologo del panteismo più estremo; le sue vette non sono ammassi di roccia e neve, ma divinità ctonie che esigono tributi di sangue.

In questo tempio di vertigine si consuma un dramma che possiede la purezza archetipica del mito. Il dottor Johannes Krafft, interpretato da un Gustav Diessl scavato dal dolore come un crepaccio, è un moderno capitano Achab la cui balena bianca è una parete di ghiaccio. La sua ossessione per il Piz Palü non è alpinistica, è tanatologica. La montagna ha inghiottito sua moglie durante la loro luna di miele, e da allora egli vaga su quelle stesse creste, non per conquistarle, ma per farsi riprendere ciò che gli è stato tolto, o forse per unirsi a lei in quel sepolcro immacolato. È una ricerca di morte mascherata da sfida, un lutto che si è fatto topografia. La spedizione di una giovane coppia, Maria e Hans, che incrocia il suo cammino, non fa che riattivare il trauma, trasformando una potenziale avventura in un pellegrinaggio verso l'inevitabile. Il parallelismo con Moby Dick di Melville non è un vezzo critico, ma una chiave di lettura strutturale: in entrambi i casi, la vastità bianca (l'oceano, la montagna) diventa lo specchio di un'anima svuotata e ossessionata, un vuoto esteriore che riflette un vuoto interiore. Krafft, come Achab, proietta il suo fantasma su una forza della natura, attribuendole un'intenzionalità maligna che essa, nella sua maestosa apatia, non possiede.

La grandezza del film risiede in una miracolosa, e forse irripetibile, sintesi di opposti. Da un lato, l'estetica di Fanck: romantica fino al midollo, erede diretta della pittura di Caspar David Friedrich. Le inquadrature degli alpinisti, minuscole figure nere contro il candore accecante, sono la trasposizione cinematografica del Viandante sul mare di nebbia. C'è lo stesso senso di sgomento e attrazione per l'infinito, la stessa percezione dell'uomo come fragile ma ostinata anomalia in un cosmo grandioso e incomprensibile. Fanck usa la cinepresa per catturare la fisicità dello sforzo, il sudore che gela, la fatica che spezza le membra, la pura testosteronica gioia della conquista. Ma a bilanciare questa epica del corpo e della natura, interviene la mano chirurgica di Georg Wilhelm Pabst, chiamato a supervisionare la regia e a curare il montaggio. Pabst, reduce da capolavori della Nuova Oggettività come I misteri di un'anima e Il vaso di Pandora, porta nel film un'urgenza psicologica, un'attenzione al dettaglio umano che impedisce all'opera di diventare semplice documentario spettacolare. Se Fanck è l'occhio che contempla il sublime, Pabst è il bisturi che incide il trauma. Il montaggio serrato delle sequenze di pericolo, il ritmo sincopato che alterna la vastità dei totali a primissimi piani di volti angosciati, tradisce un'estetica moderna, urbana, quasi nevrotica, che si scontra e si fonde con la placida eternità del paesaggio di Fanck. È da questo cortocircuito stilistico che il film trae la sua potenza quasi insostenibile.

In questo contesto, la presenza di Leni Riefenstahl non è quella di una semplice attrice, ma di un'icona fisica e culturale. Prima di diventare la controversa regista del Terzo Reich, Riefenstahl era la musa del Bergfilm, un corpo scolpito, atletico, che incarnava l'ideale della Körperkultur, il culto della salute e della forma fisica tanto in voga nella Repubblica di Weimar. La sua performance non è tanto psicologica quanto cinetica; è la sua capacità di scalare, di resistere al gelo, di esprimere determinazione e vulnerabilità con la sola postura del corpo a renderla credibile. Lei, insieme al vero asso dell'aviazione della Prima Guerra Mondiale Ernst Udet (che interpreta se stesso in un cameo mozzafiato, pilotando il suo piccolo aereo in manovre spericolate tra le vette per portare soccorso), rappresenta un ideale di umanità potenziata, quasi nietzschiana, capace di misurarsi con gli elementi. Un ideale che, visto con il senno di poi, proietta ombre inquietanti sul futuro della Germania, ma che, all'interno del film, funziona come perfetto contrappunto alla figura crepuscolare e votata alla morte del dottor Krafft.

Girato interamente in location, a costi e rischi umani oggi inimmaginabili, Agonia sui ghiacci possiede una verità materica che nessuna computer grafica potrà mai replicare. Quando una valanga si stacca, è una vera valanga. La neve è reale, il freddo è palpabile, il pericolo è tangibile. Questa fisicità brutale, quasi documentaristica, eleva il film al di sopra del semplice melodramma d'avventura. Diventa un'epopea della sopravvivenza che ha influenzato decenni di cinema a venire, da La parete di fango di Stanley Kramer fino a The Revenant di Iñárritu. Eppure, la sua influenza più profonda e spirituale la si ritrova forse nell'opera di Werner Herzog. L'ossessione di Fitzcarraldo che vuole trascinare una nave su per una montagna, la follia di Aguirre che discende un fiume amazzonico verso il nulla, sono figlie dirette della monomania del dottor Krafft. Herzog, come Fanck, è un regista che cerca la "verità estatica" spingendo attori e troupe ai limiti della resistenza fisica, in ambienti naturali ostili, credendo che solo dal confronto reale con la materia si possa estrarre un'immagine autentica e potente.

Ma Agonia sui ghiacci è anche, e forse soprattutto, un potente sismografo culturale della sua epoca. Realizzato nel 1929, alla vigilia del crollo di Wall Street e sull'orlo del baratro che avrebbe inghiottito la Repubblica di Weimar, il film può essere letto come una straordinaria metafora della condizione tedesca. C'è un'intera nazione sospesa su un cornicione di ghiaccio, divisa tra il richiamo romantico di un passato mitizzato (Krafft e il suo lutto per la sposa perduta, simbolo di un'età dell'oro irrecuperabile) e la spinta vitale, quasi incosciente, di una nuova generazione che vuole guardare avanti (la giovane coppia). La montagna, con la sua bellezza mortale e le sue catastrofi improvvise, diventa l'allegoria delle forze impersonali e schiaccianti – la crisi economica, l'instabilità politica – che minacciano di travolgere tutti. La disperata lotta per la sopravvivenza dei protagonisti, la loro tenace resistenza contro il freddo e la fame, risuona come l'eco di una società che lotta per non soccombere, aggrappata alla speranza di un salvataggio che potrebbe non arrivare.

Rivisto oggi, il film non ha perso un'oncia della sua forza primordiale. Al contrario, in un'epoca di paesaggi digitali e pericoli simulati, la sua brutale onestà visiva colpisce con la violenza di una bufera. È un'opera che ci ricorda che il cinema, prima di essere narrazione, è esperienza sensoriale. È la vertigine di un'inquadratura a piombo su un abisso, il fragore di una slavina, il bianco accecante che annulla ogni riferimento e trasforma la lotta per la vita in una pura astrazione esistenziale. Un'agonia, sì, ma di una bellezza così pura e terribile da lasciare senza fiato, persi in un inferno bianco che assomiglia, pericolosamente, al paradiso.

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