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Olympia - Festa di popoli

1938

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Assistere a "Olympia" di Leni Riefenstahl è un’esperienza che scuote le fondamenta stesse dello sguardo cinefilo. Non si tratta semplicemente di visionare un documentario, per quanto monumentale, ma di confrontarsi con un artefatto culturale tanto sublime quanto perturbante, un monolite nero piovuto nel 1938 a ridefinire per sempre le possibilità del linguaggio cinematografico applicato alla realtà. Il film si presenta in due parti, "Festa di popoli" e "Festa di bellezza", ma questa divisione è quasi un pretesto formale. L'opera è un unico, ininterrotto poema sinfonico dedicato all'esaltazione del corpo umano in movimento, un'ode pagana all'agonismo che trascende la cronaca sportiva per farsi mitologia.

Riefenstahl non documenta le Olimpiadi di Berlino del 1936; le trasfigura. Il suo approccio è demiurgico, non giornalistico. Lo si comprende dal prologo, una delle più potenti e concettualmente dense aperture della storia del cinema. Non vediamo atleti che si riscaldano o stadi in costruzione. Vediamo, invece, le rovine fumiganti dell'Acropoli, un viaggio a ritroso nel tempo verso l'archetipo, verso l'idea stessa di Occidente. La macchina da presa accarezza le statue greche, e in un momento di pura magia cinematografica, il Discobolo di Mirone prende vita, si trasforma in un atleta in carne e ossa, nudo, perfetto, che inizia il suo movimento. È una dichiarazione d'intenti sfrontata e potentissima: Riefenstahl non sta filmando un evento moderno, sta evocando un rito ancestrale, sta costruendo un ponte ideale e inscalfibile tra la purezza della Grecia classica e il presente del Terzo Reich. È un'operazione non dissimile, nei suoi intenti mitopoietici, da quella che Virgilio compì con l'Eneide per fondare la genealogia divina di Augusto. Qui, il medium non è il verso esametro, ma il profluvio di immagini in 35mm.

La vera rivoluzione di "Olympia" risiede nella sua ipertrofia estetica, nella sua ossessione per la forma. Riefenstahl e la sua sterminata troupe (si parla di dozzine di operatori) inventarono letteralmente tecniche che sarebbero diventate standard decenni dopo. Scavarono fosse nelle piste per ottenere angoli dal basso che rendessero i corridori simili a titani che sfidano il cielo. Montarono cineprese su carrelli che correvano paralleli agli atleti, anticipando la steadicam e creando un'immersione dinamica senza precedenti. Utilizzarono obiettivi a focale lunga per isolare le figure dallo sfondo, trasformandole in pure astrazioni cinetiche. L'uso del ralenti non è mai puramente esplicativo; è uno strumento di analisi quasi cubista, che scompone il gesto atletico per rivelarne la grazia nascosta, la geometria segreta. È un approccio che si oppone frontalmente al montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn: se il maestro sovietico cercava la collisione, la dialettica tra le inquadrature per generare un concetto, Riefenstahl cerca la fusione, il flusso wagneriano, un continuum visivo che ipnotizza e seduce lo spettatore, trascinandolo in uno stato di trance estetica.

L'atleta in "Olympia" cessa di essere un individuo con una storia, una psicologia, una nazione (nonostante il titolo "Festa di popoli"). Diventa un archetipo: il Corridore, il Saltatore, il Lanciatore. I corpi, spesso ripresi nudi o semi-nudi, sono depersonalizzati, trasformati in sculture viventi. Non è un caso che l'estetica del film riecheggi quella della scultura coeva di Arno Breker, ma sarebbe riduttivo fermarsi qui. C'è dentro l'eco del Futurismo di Boccioni, di quella "sintesi di ciò che si ricorda e ciò che si vede" che si traduce in forme uniche della continuità nello spazio. L'atleta riefenstahliano è una macchina biologica perfetta, un ingranaggio impeccabile nell'ingranaggio più grande della celebrazione. Il sudore brilla sulla pelle come una vernice preziosa, i muscoli si tendono come le corde di uno strumento, il volto è una maschera di concentrazione quasi disumana. È un'umanità apollinea, distillata, privata di ogni scoria di individualità e imperfezione.

Proprio in questo sistema ideologico-estetico così compatto e sigillato, si verifica un cortocircuito narrativo che è forse l'elemento più affascinante del film per l'analista contemporaneo: Jesse Owens. Riefenstahl, la cui missione era celebrare un ideale specifico di fisicità, si trovò di fronte alla necessità di filmare l'innegabile trionfo di un atleta afroamericano che, con le sue quattro medaglie d'oro, fece a pezzi il mito della superiorità ariana proprio nel suo tempio. La regista non poteva ignorarlo. E così, è costretta a filmarlo. E lo filma magnificamente. Le sequenze dedicate a Owens sono cariche di una strana tensione. La macchina da presa lo ammira, ne esalta la grazia felina, la potenza esplosiva, il sorriso disarmante. In quei momenti, il film sembra quasi tradire sé stesso. La performance inarrestabile di Owens diventa uno scacco matto alla narrazione sottintesa, un "glitch" spettacolare nella matrice del film. Per alcuni istanti, la realtà dell'impresa sportiva fa a pezzi il velo della mitizzazione ideologica, e ciò che resta è la pura, innegabile grandezza di un uomo. È un momento di cinema-verità involontario, di una potenza tellurica.

La seconda parte, "Festa di bellezza", si spinge ancora oltre nell'astrazione. La celeberrima sequenza dei tuffi è un pezzo di cinema d'avanguardia che potrebbe essere proiettato accanto a "Ballet Mécanique" di Léger o a un corto di Man Ray. Svanito quasi del tutto il contesto della competizione, il film diventa pura forma, un balletto aereo di corpi che fendono il cielo e l'acqua. Le figure umane, riprese contro il cielo bianco e accecante, si trasformano in silhouette nere, in ideogrammi in movimento, perdendo ogni connotazione umana per diventare pura linea, pura traiettoria. È la sublimazione finale del progetto di Riefenstahl: il corpo non è più veicolo di un'identità, ma solo un elemento grafico e dinamico al servizio di una composizione estetica superiore e totalizzante. È una bellezza glaciale, perfetta e, in un certo senso, terrificante. È la bellezza di un'astronave aliena di Giger o di un fiocco di neve visto al microscopio: una perfezione algoritmica che non lascia spazio al calore della fallibilità umana.

Giudicare "Olympia" è, in ultima analisi, un esercizio futile e limitante. L'opera si sottrae a ogni facile categorizzazione. È un documento storico, un capolavoro di tecnica cinematografica, un saggio di estetica del corpo, un veicolo di propaganda e un poema visivo di lancinante bellezza. È un paradosso vivente, un "capolavoro maledetto" il cui potere di seduzione è direttamente proporzionale al disagio che provoca. Come il monolite di "2001: Odissea nello spazio", "Olympia" è un oggetto alieno, di una perfezione formale che atterrisce e affascina. Ci interroga sulla natura stessa della bellezza e sul suo potenziale oscuro, sulla capacità delle immagini di creare e distruggere mondi, di elevare lo spirito e di servirne i demoni. Guardarlo oggi significa guardare in uno specchio nero, che riflette non solo gli spettri di un'epoca, ma anche la nostra perpetua, vulnerabile sottomissione al potere di una forma impeccabile.

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