Sciopero
1925
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Regista
Un urlo primordiale squarcia il silenzio del cinema nascente. Non è un suono diegetico, ma una deflagrazione di immagini, un assalto frontale al sistema nervoso dello spettatore. Sciopero di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn non è semplicemente un film; è un cuneo piantato a forza nella storia della settima arte, un trattato di fisica sociale travestito da spettacolo di massa, un esperimento così radicale da far sembrare gran parte del cinema a lui contemporaneo un innocuo teatrino delle ombre. Prima di Potëmkin e della sua celeberrima scalinata, prima che il suo nome diventasse sinonimo di “montaggio”, Ėjzenštejn, ventiseienne e imbevuto delle teorie avanguardiste del Proletkul't e del teatro di Mejerchol'd, forgia qui la sua arma cinematografica.
L'assunto narrativo è di una semplicità disarmante, quasi archetipica: in una fabbrica della Russia zarista, un operaio accusato ingiustamente di furto si impicca, innescando uno sciopero di solidarietà. Da qui si dipana una cronaca della lotta, suddivisa in capitoli didascalici che ne scandiscono le fasi: la presa di coscienza, l'organizzazione, la repressione poliziesca, la fame, il tradimento e il massacro finale. Ma chi si aspettasse un dramma psicologico con eroi e antagonisti ben delineati rimarrebbe spiazzato. Ėjzenštejn polverizza la nozione di protagonista individuale, un concetto borghese che poggia sull'eccezionalità del singolo. L'eroe di Sciopero è un'entità plurale, un organismo vibrante e multiforme: la massa. È la folla che si muove come un unico corpo, un'onda umana che prima si ritira e poi si abbatte con furia. In questo, il film anticipa di quasi un decennio la coralità disperata della trilogia U.S.A. di John Dos Passos, dove la vera protagonista è l'America stessa, un collage di voci, ritagli di giornale e biografie frammentate. Qui, allo stesso modo, i volti emergono dalla folla solo per un istante, diventando sineddoche di un'intera classe, per poi essere riassorbiti nel flusso collettivo.
È sul piano della forma, tuttavia, che Sciopero opera la sua rivoluzione più profonda e duratura. Ėjzenštejn non si limita a raccontare una storia; la costruisce attraverso una sintassi visiva inedita, il "montaggio delle attrazioni". Non si tratta di un semplice accostamento di inquadrature per garantire continuità narrativa, ma di una collisione deliberata di immagini eterogenee per generare un'idea, un concetto, un'emozione nello spettatore. È un cinema che non vuole essere visto passivamente, ma che esige un lavoro intellettuale, un cortocircuito sinaptico. Le spie della fabbrica non sono semplicemente uomini; sono paragonate, con tagli fulminei, a volpi, gufi e scimmie, trasformando la loro caratterizzazione in un bestiario grottesco e caricaturale, un'eredità diretta dell'estetica biomeccanica di Mejerchol'd, dove il gesto e la maschera prevalgono sull'introspezione. L'azione degli operai che gettano gli arnesi e abbandonano i macchinari è un balletto meccanico e geometrico, una coreografia di ribellione dove uomini e macchine, per la prima volta, non sono in simbiosi produttiva ma in antitesi dinamica.
L'intero film è un laboratorio di analogie visive. Il capitale, con i suoi azionisti panciuti, viene sbeffeggiato accostando il loro stappare champagne all'inchiostro che schizza da una penna mentre firmano ordini repressivi. Un limone spremuto in un bicchiere diventa metafora dello sfruttamento del proletariato. Sono idee visive fulminanti, quasi dei prototipi di meme ante litteram, concepiti per imprimersi nella retina e comunicare un concetto in modo istantaneo e viscerale. Ma questa grammatica raggiunge il suo apice, la sua vetta più terrificante e sublime, nella sequenza finale. Il massacro degli operai inermi da parte dell'esercito zarista non viene mostrato direttamente nella sua interezza. Viene invece brutalmente intersecato con le immagini di un macello, dove un toro viene sgozzato e squartato.
Questa sequenza è uno dei momenti fondativi del linguaggio cinematografico. Non è più narrazione, è tesi. L'accostamento non serve a illustrare, ma a creare un'equivalenza concettuale: la repressione statale è un macello, un atto di brutale e disumanizzante violenza zootecnica. Lo spettatore è costretto a creare il collegamento, a subire lo shock dell'analogia. L'orrore non è solo nella visione del sangue (che peraltro è assente, data la pellicola in bianco e nero), ma nell'operazione intellettuale che Ėjzenštejn ci impone. È un'idea che si fa carne e sangue nella nostra mente. Questa tecnica, questo uso metaforico e dialettico del montaggio, influenzerà chiunque, da Buñuel con il suo asino carico di pianoforti in Un Chien Andalou fino al finale di Apocalypse Now, dove il sacrificio del colonnello Kurtz è montato in parallelo con il sacrificio rituale di un bufalo d'acqua. Coppola, consapevolmente o meno, sta dialogando con Ėjzenštejn a più di cinquant'anni di distanza.
Certo, Sciopero è un'opera di propaganda, un pamphlet commissionato per celebrare la rivoluzione. Ma ridurlo a questo sarebbe come definire il David di Michelangelo solo un pezzo di marmo a tema biblico. Al di là del suo scopo politico contingente, il film è un'esplorazione febbrile e quasi selvaggia delle potenzialità del cinema. Ėjzenštejn non sta solo filmando una rivolta; sta inventando un linguaggio per esprimerla. La sua macchina da presa è un sismografo che registra le scosse telluriche del cambiamento sociale. Usa angolazioni estreme, composizioni diagonali di matrice costruttivista, primi piani grotteschi e campi lunghi che trasformano gli esseri umani in pattern geometrici. Il film stesso è costruito come una macchina: ogni inquadratura è un ingranaggio, ogni taglio un pistone, assemblati per produrre un effetto preciso e potente.
Rivederlo oggi significa assistere alla nascita di un lessico che abbiamo dato per scontato. La sua energia cinetica è ancora intatta, la sua furia visiva quasi insuperata. È un cinema fisico, che colpisce basso, allo stomaco, prima ancora di arrivare al cervello. È un'opera seminale che dimostra come il cinema possa non solo rappresentare la realtà, ma reinterpretarla, smontarla e riassemblarla per creare nuovi, potentissimi significati. È il punto zero da cui si diparte un'intera concezione del cinema come strumento non solo di intrattenimento, ma di analisi, di lotta, di pensiero. Un distillato purissimo e incandescente della convinzione che un'inquadratura potesse, davvero, cambiare il mondo. O, quantomeno, il modo di vederlo.
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