Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Shoah

1985

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Di fronte a certi abissi della storia, il cinema, con la sua ontologica vocazione alla rappresentazione, si trova di fronte a un bivio epistemologico: mostrare o evocare? Documentare l'archivio o registrare l'eco? La maggior parte sceglie la prima via, quella sicura e codificata dell'immagine storica, del filmato di repertorio, della fotografia che funge da feticcio della memoria. Claude Lanzmann, con Shoah, non si limita a scegliere la seconda via: la scava con le unghie per undici anni, edificando un contro-monumento cinematografico che rigetta ogni singola convenzione del documentario storico per diventare qualcos'altro. Un'esperienza. Una seduta psicoanalitica della civiltà occidentale durata nove ore e mezza. Un'orazione funebre senza cadavere.

Il gesto radicale, quasi un sacrilegio per lo storico ma un'epifania per il cinefilo, è l'assoluta, programmatica, teologica assenza di immagini d'archivio. Lanzmann capisce che l'orrore indicibile non può essere illustrato dalle stesse pellicole sgranate che, a forza di essere riprodotte, rischiano la desensibilizzazione, trasformando la tragedia in iconografia. La sua scommessa è vertiginosa: filmare il nulla per raccontare l'annientamento. Filmare il presente per far eruttare il passato. I prati verdi e silenziosi di Treblinka, le rovine inerti di Birkenau, i tranquilli villaggi polacchi non sono sfondi, ma protagonisti. Sono la scena del crimine dopo che il tempo ha lavato via il sangue, ma non la memoria. In questo, Lanzmann si avvicina più a un pittore paesaggista metafisico come De Chirico che a un documentarista. Le sue inquadrature sono piazze d'Italia svuotate della vita, ma gravide di un'attesa terribile, di un evento che è già accaduto e che continua ad accadere nell'assenza.

L'immagine è quindi il vuoto, e la colonna sonora è il pieno. Shoah è un film eminentemente orale, una sinfonia di testimonianze che riempie il silenzio dei luoghi. Ma Lanzmann non è un confessore passivo. È un maieuta socratico, un inquisitore, a tratti persino un aguzzino della memoria. La sua intervista non è mai consolatoria; è un'operazione chirurgica senza anestesia. Spinge i suoi testimoni, sopravvissuti, carnefici e spettatori, fino al punto di rottura, al luogo dove la parola cede e rimane solo il trauma puro. La celebre, straziante sequenza di Abraham Bomba, il barbiere di Treblinka, è l'emblema di questo metodo. Mentre mima il taglio dei capelli in un salone in Israele, Lanzmann lo incalza a descrivere l'arrivo delle donne nude nella finta camera a gas mascherata da doccia. Bomba si ferma, implora di non continuare. "We have to do it. You know it," ribatte Lanzmann fuori campo. È un momento di una crudeltà cinematografica inaudita, ma necessaria. È il cinema che si fa carico del suo ruolo più alto: non intrattenere, non informare, ma costringere alla testimonianza, forzare lo sguardo lì dove si vorrebbe chiudere gli occhi.

Questa ostinazione nel far riemergere il rimosso accomuna il metodo di Lanzmann a quello di un Dostoevskij, che costringeva i suoi personaggi a confessare le loro verità più oscure non per giudicarli, ma per svelare l'abisso dell'animo umano. L'intervista a Franz Suchomel, ex SS di Treblinka, filmata con una telecamera nascosta, non è un processo sommario. È un'agghiacciante lezione di anatomia della banalità del male. Suchomel descrive la routine dello sterminio con la precisione di un tecnico, canticchiando persino la canzoncina che i prigionieri erano costretti a intonare. Non c'è rimorso, solo il ricordo di un lavoro ben fatto. In quel canto stonato, in quella meticolosa descrizione logistica, risiede un orrore più profondo di qualsiasi immagine di violenza. È l'orrore della normalizzazione, della burocrazia della morte.

La durata del film, spesso criticata come eccessiva, è invece un elemento strutturale fondamentale. Nove ore e mezza non servono ad accumulare informazioni, ma a disintegrare le difese dello spettatore. Shoah non si "guarda", si attraversa. È un'esperienza di resistenza fisica e psicologica. La sua temporalità dilatata, che ricorda la radicalità di un Andy Warhol di Empire o la lentezza estenuante dei film di Lav Diaz, non è un vezzo autoriale. È la mimesi cinematografica del processo industriale della Soluzione Finale: lento, ripetitivo, inesorabile, burocratico. I lunghi viaggi in treno, il rumore cadenzato delle ruote sui binari che diventa il metronomo della morte, le descrizioni che tornano più e più volte quasi come un refrain liturgico, tutto contribuisce a creare un'ipnosi, uno stato di veglia in cui il tempo storico collassa e il passato diventa un presente intollerabile. Non c'è catarsi, non c'è risoluzione. Alla fine, si è semplicemente esausti, svuotati, come i luoghi che il film mostra.

Se Notte e Nebbia di Alain Resnais, realizzato trent'anni prima, era un saggio poetico e dolente che usava il montaggio dialettico tra il colore del presente e il bianco e nero del passato, Shoah è la sua antitesi. È un film che esiste interamente nel presente a colori, un presente malato, infestato. È un'opera che si pone in dialogo più con la Land Art di Robert Smithson, che con i suoi "non-sites" portava pezzi di paesaggio desolato all'interno della galleria per parlare di entropia e memoria, che con il cinema documentario tradizionale. Lanzmann fa l'operazione inversa: porta la sua cinepresa in questi "non-luoghi" della storia, trasformando lo schermo in uno spazio liminale dove il paesaggio diventa documento e la parola diventa monumento.

L'uscita del film nel 1985 fu uno spartiacque. In un'epoca ancora dominata da una rappresentazione più convenzionale, e prima che Schindler's List tentasse la via della ricostruzione narrativa, Shoah impose una nuova etica dello sguardo. Dimostrò che per affrontare l'irrappresentabile non serviva ricrearlo, ma circondarlo, tracciarne i contorni attraverso le cicatrici che ha lasciato sul mondo e sulle persone. È un film che rifiuta la facile emozione per abbracciare la difficile comprensione. Non chiede allo spettatore di piangere, ma di ascoltare. Di guardare un prato e sentire le urla. Di osservare un uomo anziano che canta su una barca nel fiume Ner, Simon Srebnik, uno dei due soli sopravvissuti di Chelmno, e percepire tutto il peso di una storia che non può essere raccontata, ma solo tramandata come un'eco, un canto spezzato che risuona in un eterno, terribile presente. Shoah non è un film sull'Olocausto. È un frammento dell'Olocausto stesso, trasmutato in tempo, spazio e suono. Un'opera-mondo che non si limita a entrare nel canone cinematografico, ma lo riscrive, lasciando un solco dal quale è impossibile tornare indietro.

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