Un chien andalou
1929
Vota questo film
Media: 4.50 / 5
(2 voti)
Regista
Un occhio, spalancato, tenuto fermo da dita che sembrano più uno strumento di tortura che un gesto umano. Un rasoio a mano libera, affilato sotto una luna sottile come il rasoio stesso, si avvicina. Lo stacco su una nuvola che taglia la luna è un'ellissi poetica, un attimo di respiro prima che la lama, in un primo piano brutale e intollerabile, sezioni il bulbo oculare. Non è un effetto speciale. È un occhio di vitello, certo, ma l'impatto psicologico è quello di una violazione definitiva. Con questa singola, indimenticabile immagine, Luis Buñuel e Salvador Dalí non si limitano a dare inizio a Un chien andalou; compiono un atto di terrorismo estetico. Dichiarano guerra non a un personaggio o a una trama, ma allo spettatore stesso, al suo sguardo passivo, alla sua comoda poltrona, alla sua pretesa di un'esperienza cinematografica sicura e ordinata. È la più radicale dichiarazione d’intenti della storia del cinema: "Ciò che state per vedere vi ferirà. Smettete di guardare e iniziate a vedere".
Nato da un patto sacrilego tra due sogni – quello di Buñuel su una nuvola che affettava la luna e quello di Dalí su una mano brulicante di formiche – il film fu concepito secondo un'unica, ferrea regola: nessuna immagine che potesse prestarsi a un'interpretazione razionale, logica o culturale sarebbe stata accettata. Il risultato è un cortocircuito di sedici minuti nella sintassi del cinema nascente, un puro distillato di inconscio freudiano liberato dalle catene della narrazione. Le didascalie temporali – "C'era una volta", "Otto anni dopo", "Verso le tre del mattino", "Sedici anni prima" – non scandiscono un flusso cronologico, ma lo deridono, lo sabotano. Sono i falsi indizi di una detective story senza delitto né soluzione, un puzzle le cui tessere appartengono a scatole diverse. Il cinema, che si stava affannando a costruire una grammatica basata sulla continuità e sulla causalità, viene qui fatto a pezzi e riassemblato secondo la logica associativa del sogno, quella stessa "scrittura automatica" che André Breton stava teorizzando per la letteratura. Un chien andalou è un cadavre exquis su celluloide, un poema visivo dove ogni verso è un'aggressione e la metrica è il caos.
Il ciclista androgino in abiti da suora. La mano intrappolata in una porta da cui spuntano formiche come stigmate della putrefazione. I due pianoforti a coda trascinati a fatica, zavorrati da carcasse di asini in decomposizione e da due preti vivi (uno dei quali interpretato da Dalí stesso), come un fardello intollerabile composto dai pilastri della cultura borghese: l'arte alta, la religione, la morale. Ogni sequenza è un geroglifico dell'inconscio, un rebus la cui chiave non è la comprensione, ma l'esperienza emotiva. Buñuel, ateo militante e fustigatore della borghesia per tutta la sua carriera, inizia qui a forgiare il suo arsenale iconoclasta. L'uomo che palpeggia con bramosia i seni della donna, che si trasformano immediatamente in natiche nude in un'associazione visiva di pura libido, non è un personaggio, ma l'incarnazione del Desiderio (l'Es freudiano), bloccato e frustrato dal Super-Io (i pianoforti, i preti, il peso della civiltà).
Visto oggi, il film funziona come una sorta di Stele di Rosetta per decifrare quasi un secolo di cinema d'avanguardia e di rottura. L'orrore fisico e la simbologia della carne di David Cronenberg sono già tutti qui, nel primo piano dell'occhio reciso e nella mano formicolante. L'universo onirico, domestico e terrificante di David Lynch, specialmente quello di Eraserhead, è un discendente diretto di questo appartamento parigino dove le leggi della fisica e della logica sono sospese. La disintegrazione della narrazione operata da Godard e dalla Nouvelle Vague sembra quasi un gioco da ragazzi in confronto a questa primordiale esplosione atomica contro la coerenza. Un chien andalou è il "glitch" originale nella matrice del cinema classico, il virus che ha infettato il sistema per dimostrare che un altro tipo di linguaggio visivo era possibile. Un linguaggio che non racconta, ma evoca; che non spiega, ma manifesta.
L'analisi del film diventa un esercizio di archeologia psicoanalitica. La famosa scena della mano e delle formiche non è solo un'immagine potente, ma un feticcio ricorrente nell'opera di Dalí, legato ai suoi ricordi infantili, alla paura della morte e alla fascinazione per la decomposizione. Il libro che l'uomo impone all'alter ego di brandire come un'arma, prima che questi venga fucilato e cada aggrappato alla schiena di una donna nuda in un parco, è un altro nodo inestricabile di desiderio, educazione repressiva (i Fratelli Maristi, altro bersaglio buñueliano) e violenza. Non si tratta di simboli da decodificare con un manuale, quanto di "fatti poetici", come li definiva Buñuel, immagini che colpiscono la psiche a un livello pre-razionale, aggirando le difese dell'intelletto per parlare direttamente all'inconscio. È un'esperienza cinematografica che si avvicina più a una seduta di ipnosi o a un'allucinazione indotta che a una visione tradizionale.
La sua prima proiezione pubblica, nel 1929 allo Studio des Ursulines di Parigi, è leggenda. Buñuel, temendo una reazione violenta del pubblico, si era preparato dietro lo schermo con le tasche piene di sassi, pronto a rispondere a un eventuale linciaggio. Invece, l'élite intellettuale e artistica parigina, inclusi i surrealisti al gran completo, lo acclamò come un capolavoro, l'autentica espressione cinematografica del loro movimento. Paradossalmente, questo successo borghese e intellettuale finì per disgustare Buñuel, che vedeva nel suo film un "disperato, appassionato appello all'omicidio" e che si sentì tradito dall'applauso di quella stessa società che voleva distruggere. Questa ambiguità segnerà il suo rapporto con il pubblico per tutta la vita, un eterno conflitto tra il desiderio di provocare e la frustrazione di essere assimilato e celebrato dal sistema.
Rivedere Un chien andalou oggi significa compiere un pellegrinaggio alle sorgenti dell'immaginario cinematografico moderno. È un film che non invecchia, perché non è mai stato "contemporaneo" a nulla. Esiste in una dimensione atemporale, quella del sogno e dell'incubo. La sua violenza non è diminuita, la sua capacità di turbare è intatta, il suo mistero insolubile. La sequenza finale, con la coppia felice e sorridente che, nello stacco successivo, appare sepolta fino al busto nella sabbia, "cieca, imputridita e divorata dagli insetti del sole", è la chiusura perfetta di questo cerchio di desiderio e morte. È la beffa definitiva: persino il lieto fine, la più tenace delle convenzioni narrative, viene corroso e annientato. È la prova che il cinema può essere non solo intrattenimento o arte, ma anche un bisturi per sezionare l'anima, un rasoio per squarciare il velo delle nostre certezze. E il nostro occhio, dopo, non è più lo stesso.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria







Commenti
Loading comments...
