La vita agra
1964
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Regista
Un uomo arriva in una metropoli con un piano tanto semplice quanto esiziale: far saltare in aria il cuore simbolico del neocapitalismo che gli ha ucciso i compagni. Non è l'incipit di un thriller politico di Costa-Gavras, né un noir nichilista alla Jean-Pierre Melville. È l'abbrivio quasi picaresco de La vita agra, film del 1964 di Carlo Lizzani, e il suo protagonista, l'anarchico Luciano Bianchi, è forse la più perfetta e tragicomica incarnazione dell'intellettuale disorganico che il cinema italiano abbia mai concepito. Un Ugo Tognazzi gigantesco, al suo zenit espressivo, presta volto e corpo a questo reduce della provincia toscana, catapultato nella nebbiosa e febbrile Milano del boom economico con una missione di vendetta che si sgretolerà nel tritacarne della modernità.
Il film, tratto dall'omonimo, fluviale e alcolico romanzo-pamphlet di Luciano Bianciardi, è un oggetto cinematografico singolare, un ibrido che danza sul filo teso tra la satira feroce della Commedia all'italiana e un'analisi sociologica che lambisce le lande desolate dell'incomunicabilità antonioniana, ma con il volume della voce alzato e un bicchiere di rosso in mano. Se i personaggi di Antonioni vagavano silenti e ieratici nell'asettica architettura della modernità, sentendone il vuoto esistenziale, il Luciano di Lizzani e Tognazzi in quella stessa modernità ci sguazza, ci urla contro, la insulta, la analizza con pedanteria marxista e infine, inesorabilmente, ne viene fagocitato. È l'alienazione vista non dalla terrazza di un attico borghese, ma dal bancone di un'osteria o dalla scrivania di un traduttore sfruttato, un'alienazione proletaria nell'anima, anche se intellettuale nella forma.
Luciano Bianchi arriva a Milano per far saltare il "Pirellone", totem fallico del potere industriale che, nella finzione narrativa come nella realtà storica di Ribolla, antepone il profitto alla vita dei minatori. Il suo è un terrorismo chimerico, un gesto futurista alla rovescia: non la celebrazione della macchina, ma la sua profanazione. Eppure, la metropoli non lo combatte; lo seduce, lo neutralizza con un'arma infinitamente più potente della repressione: l'integrazione. Milano non ha bisogno di manganelli per disinnescare la sua bomba. Gli offre un lavoro, un monolocale, la pubblicità, il consumismo e, soprattutto, gli offre Anna, una Giovanna Ralli pragmatica e vibrante, incarnazione di una femminilità nuova, emancipata e perfettamente integrata nei ritmi produttivi della città. L'amore, che dovrebbe essere l'ultima trincea dell'umano, diventa qui il più dolce e inesorabile degli ingranaggi del sistema.
Il percorso di Luciano è una discesa agli inferi del benessere. Il suo furore ideologico si stempera nell'urgenza di pagare l'affitto. Le sue invettive contro il Capitale diventano slogan pubblicitari per detersivi e frigoriferi. Lizzani, regista dalla mano solida e dallo sguardo lucido, meno stilisticamente pirotecnico di altri maestri del suo tempo ma forse per questo più efficace nel radiografare la realtà, mette in scena questo processo di addomesticamento con una precisione quasi documentaristica. La sequenza in cui Luciano impara a memoria i percorsi dei tram, le regole non scritte della produttività milanese, è un piccolo capolavoro di montaggio che mostra l'assimilazione come un processo di riprogrammazione neurologica. Il suo corpo e la sua mente provinciali, abituati a ritmi umani, vengono formattati per la catena di montaggio immateriale della metropoli terziaria.
Il confronto con la pagina scritta di Bianciardi è illuminante. Il romanzo è un torrente di coscienza rabbioso, un monologo febbrile e colto, intriso di un'ira che il film, per sua natura e per le esigenze del mercato, non può che ammorbidire. La vita agra di Lizzani è una "traduzione" che è anche, in parte, un "tradimento", nel senso più alto e necessario del termine. Se il libro è un urlo, il film è un sospiro tragicomico, un'alzata di spalle davanti all'inevitabile. Tognazzi è magistrale nel mediare tra queste due anime: la sua performance conserva la furia intellettuale del personaggio letterario, ma la cala in una fisicità goffa, in una maschera di patetismo che suscita tanto la risata quanto la pietà. È, in fondo, un Holden Caulfield invecchiato e sbronzo, che invece di inveire contro i "phonies" se la prende con gli "integrati", finendo per diventare il più integrato di tutti.
Meta-testualmente, il film compie sul romanzo di Bianciardi la stessa operazione che la società del benessere compie sul suo protagonista: lo prende, ne smussa gli angoli più radicali, lo impacchetta in un formato accessibile – quello della commedia – e lo vende al grande pubblico. Non è un demerito, ma una constatazione che aggiunge un ulteriore, vertiginoso strato di complessità all'opera. Lizzani stesso sembra consapevole di questo cortocircuito, e lo esplicita in una delle scene più geniali e moderne del film: la traduzione del manuale di un pilota americano. Qui, il regista abbandona il realismo e si lancia in un montaggio pop, quasi godardiano, con scritte in sovrimpressione e un ritmo da videoclip ante litteram, mostrando la lingua stessa che diventa merce, slogan, suono svuotato di significato. È la materializzazione visiva della tesi di fondo: nella società dello spettacolo, anche il linguaggio della ribellione può essere cooptato e messo a profitto.
Si potrebbe vedere in Luciano Bianchi un antesignano di Howard Beale, il "pazzo profeta dell'etere" di Quinto Potere di Sidney Lumet. Entrambi sono uomini che urlano la verità contro il sistema, ed entrambi vengono trasformati dal sistema stesso in un fenomeno da baraccone, un prodotto di successo. La differenza cruciale è che la rabbia di Beale viene trasmessa in diretta TV, spettacolarizzata e monetizzata, mentre quella di Luciano si consuma privatamente, tra le pareti di un monolocale, e si spegne non in un bagno di sangue, ma nel ronzio di un frigorifero nuovo di zecca. La tragedia italiana è più intima, più silenziosa, più amara. È la sconfitta senza martirio, l'abdicazione che avviene non sul patibolo, ma davanti a una rata del televisore.
La sequenza finale è di una crudeltà sublime. Luciano, ormai impiegato modello, padre di famiglia, guarda la sua creatura dormire in una culla iper-tecnologica. La moglie gli porge un bicchiere di latte, bevanda dell'infanzia, simbolo di una regressione e di una pacificazione forzata. Dalla finestra, la sua nemesi, il grattacielo Pirelli, lo osserva, impassibile e vittorioso. Il suo volto non esprime più rabbia, ma una rassegnazione infinita, la consapevolezza di essere diventato una rotella nell'ingranaggio che voleva distruggere. La vita non è più "agra" per la miseria, ma per il sapore dolciastro del conformismo, per la cenere di un ideale tradito che impasta la bocca. È la stessa disillusione che si respirerà, anni dopo, nei cubicoli di Office Space di Mike Judge, ma spogliata di ogni residua ironia salvifica.
La vita agra rimane un documento fondamentale, non solo del cinema italiano, ma della storia culturale dell'Occidente. Ha profetizzato, con spietata lucidità, il destino della contestazione nell'era del capitalismo maturo, la sua capacità di assorbire e neutralizzare ogni antagonismo trasformandolo in stile di vita, in prodotto, in nicchia di mercato. L'anarchico bombarolo è diventato un creativo pubblicitario. Il rivoluzionario ha comprato casa. La sua bomba non è mai esplosa, ma forse, in un certo senso, è esplosa dentro di lui, silenziosamente, lasciando al posto del cuore un cratere colmo di benessere e rimpianto.
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