La vita di Adele
2013
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Regista
Un'opera che non si limita a raccontare una storia d'amore; ci costringe a viverla attraverso la carne, i fluidi, la fame e il respiro della sua protagonista. La camera di Kechiche è puntata incessantemente, quasi in modo vampiresco, sulla grana della pelle, sulla saliva che impasta il cibo, sulle lacrime che si mescolano al moccio, sui pori dilatati. L'intera estetica del film è una violazione consensuale dello spazio intimo. Il primo piano estremo è una dichiarazione filosofica: l'universale non si trova nelle stelle, ma in una bocca semiaperta durante il sonno. Se il cinema di Robert Bresson cercava l'anima astraendo il corpo, Kechiche la cerca attraverso l'esaltazione quasi feticistica del corpo.
Il film è, prima di ogni altra cosa, un ritratto. Un ritratto così intenso da far impallidire il Ritratto di signora di Henry James. La performance di Adèle Exarchopoulos è un olocausto di sé. È la cosa più vicina alla verità (qualunque cosa essa sia) che uno schermo possa contenere. Kechiche cattura la sua protagonista in uno stato di perenne appetito. Adèle ha fame. Fame di cibo (le scene in cui mangia spaghetti alla bolognese sono un atto di sensualità quasi primordiale), fame di conoscenza (anche se non intellettuale), fame di sesso, fame di vita.
In questo, Adèle è l'antitesi esistenzialista della sua partner. Emma (una Léa Seydoux glaciale, cerebrale, i cui capelli blu sono un faro di alterità intellettuale) è definita da ciò che pensa. Adèle è definita da ciò che sente. Emma parla di arte, cita Schiele e Klimt, discute di filosofia a tavola. Adèle è arte. È la materia prima, il "corpo" che gli intellettuali come Emma cercano di catturare, analizzare e, infine, possedere. Non è un caso che Emma sia una pittrice e Adèle la sua musa. Kechiche sta mettendo in scena l'eterno, vampirico rapporto tra l'artista e il suo soggetto, tra l'intelletto e la materia.
La controversia che ha avvolto il film – le famigerate storie dal set, le accuse di sfruttamento, il dibattito sulle scene di sesso – è la chiave per capire il metodo Kechiche. Cercava la verità attraverso l'esaurimento. Voleva filmare non la recitazione dell'amore, ma la cicatrice lasciata dall'amore. E quelle scene di sesso, così lunghe, così esplicite, così discusse? Certo, è innegabile la presenza di uno sguardo maschile che coreografa un atto lesbico con un'insistenza che rasenta l'ossessivo. Ma nel contesto dell'estetica del film, esse sono coerenti. Se Kechiche filma Adèle che mangia un panino con la stessa intensità viscerale, non poteva esimersi dal filmare l'atto sessuale con la stessa fame.
Il vero cuore pulsante del film, tuttavia, non è il sesso. È la classe sociale. Questa non è solo una storia d'amore interrotta; è un saggio sull'impossibilità di colmare un divario culturale. La frattura non è tra due donne, ma tra due mondi. È la cena a casa di Adèle (spaghetti, calore proletario, discorsi terra-terra sul lavoro) contro la cena a casa di Emma (ostriche, vino bianco, conversazioni rarefatte su Sartre). Kechiche, da sempre il cantore delle periferie francesi (basti pensare al suo capolavoro La schivata), sa che l'amore può tutto, tranne che cancellare il codice postale. Adèle, con la sua vocazione "umile" di diventare maestra d'asilo, si sente un'intrusa nel salotto radical chic di Emma. Non capisce le battute, non coglie i riferimenti. Ed è questo, non l'infedeltà, a creare la prima, vera crepa.
E poi, il film ci offre la sua stessa chiave di lettura in modo quasi sfacciatamente meta-testuale: La Vie de Marianne di Marivaux. Il romanzo settecentesco che Adèle studia (e poi insegna) all'inizio del film. Non è un caso. Come la Marianne di Marivaux, Adèle è un'"osservatrice" che si ritrova osservata, una parvenue sociale che entra in un mondo (quello dell'arte, della cultura borghese di Emma) di cui non possiede i codici. Il film di Kechiche è un romanzo di formazione picaresco mascherato da storia d'amore. I "Capitoli 1 & 2" del titolo non si riferiscono solo alle due fasi della relazione, ma ai primi volumi di un'educazione sentimentale e sociale che è lungi dall'essere completa.
La rottura, quando arriva, è un cataclisma. È una sequenza di quasi dieci minuti di puro dolore fisico, filmata con la stessa implacabile vicinanza. Non c'è scampo per Adèle, e non c'è scampo per noi. La sua disperazione è animale, primitiva. È il ruggito di chi ha perso non solo l'amore, ma il proprio centro di gravità.
Ciò che eleva La vita di Adele da grande film a capolavoro è la gestione del tempo. Le tre ore di durata non sono un capriccio; sono necessarie. Kechiche usa la durata per farci sentire il peso del tempo che passa, la lenta guarigione e l'ottusa persistenza del desiderio. Il finale, con quell'ultimo incontro in un caffè, è la quintessenza della tragedia adulta. Emma è andata avanti. Ha una nuova compagna, una nuova vita, persino i suoi capelli non sono più blu (il colore della passione, il colore del calore, come recita il titolo della graphic novel di Julie Maroh da cui è tratto). Adèle, invece, è ancora intrappolata nel passato. Indossa un vestito blu, un patetico tentativo di rievocare la magia perduta. È la stessa, ma tutto è cambiato.
L'inquadratura finale di Adèle che si allontana per strada, inghiottita dalla folla, è la chiusura perfetta del cerchio. È tornata a essere una Marianne, un'osservatrice solitaria nella commedia umana. Ha amato, ha perso, ed è sopravvissuta. La vita di Adele è un film estenuante, problematico, imperfetto e assolutamente essenziale. È un'epica dell'intimità, un film che ci lascia svuotati, sazi e, come la sua eroina, disperatamente affamati di più.
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