Ossessione
1944
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Regista
Un uomo emerge dal pulviscolo di una strada assolata della Bassa Padana, un miraggio di sudore e muscoli che si materializza di fronte a una stazione di servizio isolata, quasi un avamposto esistenziale nel nulla. Non è l'incipit di un romanzo di Steinbeck, né un frammento perduto del neorealismo che verrà. È l'epifania tellurica di Gino Costa, il vagabondo interpretato da un Massimo Girotti al culmine del suo magnetismo, e l'inizio di Ossessione di Luchino Visconti. Già in questa prima inquadratura risiede il genio di una trasfigurazione radicale. Visconti prende la prosa secca, meccanica e fatalista di James M. Cain – il suo Il postino suona sempre due volte – e la strappa dal contesto urbano e piovoso della noir americana per annegarla nella luce accecante e nell'afa opprimente della campagna italiana, trasformando un teorema di sesso e avidità in una tragedia operistica intrisa di realismo.
Il film, girato nel 1943 in pieno regime fascista, non è semplicemente un film; è un atto di insubordinazione estetica, una crepa nel muro levigato del cinema dei "telefoni bianchi". Mentre la cinematografia ufficiale celebrava eroi impeccabili e famiglie borghesi in appartamenti lindi, Visconti puntava la sua macchina da presa sulla polvere, sulla miseria, sulla sensualità disperata e animalesca. L'incontro tra Gino e Giovanna (una Clara Calamai monumentale, lontana mille miglia dalla femme fatale algida e calcolatrice del modello americano) non è un gioco di seduzione, ma una collisione di solitudini. Giovanna non è una vedova nera; è una prigioniera, incatenata a un marito grasso, grottesco e patetico, il cui omicidio non è il culmine di un piano diabolico, ma uno spasmo di liberazione destinato a fallire.
Qui si manifesta la prima, fondamentale deviazione dalla matrice hard-boiled. Se nel noir americano il delitto è un meccanismo narrativo che mette in moto la spirale della colpa e della punizione, in Visconti diventa il sintomo di una malattia sociale e spirituale. I personaggi non sono malvagi, sono disperati. La loro passione non ha nulla di romantico; è una forza primordiale, una fame di vita che si esprime nell'unico modo che conoscono: attraverso i corpi. Le scene nella cucina dello spaccio, tra odori di cibo e sudore, sono cariche di un erotismo greve, tangibile, che l'industria hollywoodiana, imbrigliata dal Codice Hays, poteva solo sognare. Visconti non filma un'attrazione, filma un bisogno ontologico, la ricerca di un appiglio in un mondo che non offre scampo.
La grandezza di Ossessione risiede in questa sua anima ancipite, in questa sua miracolosa dialettica tra opposti. Da un lato, è il seme del Neorealismo, il suo profeta non riconosciuto. L'uso delle location reali, l'attenzione quasi documentaristica per gli ambienti e i gesti quotidiani, lo sguardo impietoso sulla povertà e l'emarginazione anticipano di anni la lezione di Rossellini e De Sica. Ma Visconti, l'aristocratico marxista, l'esteta cresciuto alla corte di Jean Renoir (e l'influenza del realismo poetico francese, de La Bête Humaine, è palpabile), non può e non vuole essere un semplice cronista della realtà. Sotto la superficie verista, pompa il cuore nero e pulsante del melodramma. Ogni inquadratura è composta con un rigore pittorico che tradisce la sua formazione. I lunghi piani sequenza creano una tensione quasi insostenibile, le luci sembrano scolpite da un Caravaggio trasferitosi in un'osteria di provincia, e i personaggi, pur immersi in un contesto di realismo spietato, si muovono e agiscono con la magniloquenza dei protagonisti di un'opera di Verdi. Sono anime dannate che cantano la loro rovina non con arie, ma con silenzi carichi di significato e dialoghi scarni come sentenze.
Il paesaggio stesso diventa un personaggio, forse il più importante. La Pianura Padana di Visconti non è un mero sfondo, ma la proiezione dello stato interiore dei suoi protagonisti. È uno spazio geografico e mentale piatto, desolato, senza vie di fuga. La strada, simbolo per eccellenza della libertà nel mito americano, qui diventa un nastro d'asfalto che non porta da nessuna parte, un cerchio infernale che riconduce sempre al punto di partenza. È un labirinto a cielo aperto, sotto un sole che non illumina ma consuma, che prosciuga le energie e le speranze. In questa desolazione metafisica, che sembra quasi prefigurare le future esplorazioni dell'alienazione di Antonioni, l'unica alternativa alla passione distruttiva è rappresentata da un personaggio che nel romanzo di Cain non esiste: "Lo Spagnolo".
L'introduzione di questo artista di strada, questo girovago dall'aura vagamente politica e dall'etica comunitaria, è un colpo di genio meta-testuale. Lo Spagnolo rappresenta un'alternativa morale e ideologica al rapporto claustrofobico e possessivo tra Gino e Giovanna. Offre a Gino un modello di libertà diverso, basato sulla solidarietà maschile, sulla condivisione, su un'esistenza nomade ma non solitaria. È la via della coscienza, dell'impegno forse, contrapposta alla via dell'istinto. Il fatto che Gino, dopo un breve interludio di pace apparente, scelga di tornare da Giovanna e dal suo destino di morte, segna la sua condanna definitiva. Non è solo la scelta di una donna, è il rifiuto di una possibilità di salvezza, la resa a quel fatalismo che impregna ogni fotogramma del film.
Rivedere Ossessione oggi significa assistere a un atto di fondazione. È un'opera fantasma, quasi un samizdat cinematografico, osteggiato dal regime che ne ordinò la distruzione (le copie sopravvissero quasi per miracolo), e che per decenni è rimasto un capolavoro più citato che visto. È il punto di collisione tra mondi apparentemente inconciliabili: la letteratura di consumo americana e la tradizione del verismo di Verga; la disperazione esistenzialista francese e la passionalità tragica italiana; l'occhio per il dettaglio realistico e l'afflato per la composizione operistica. Visconti non si limita a filmare una storia di "bassa macelleria", come la definì sprezzantemente un gerarca. Scava sotto la superficie del crimine per trovare una verità più profonda sull'Italia di quel tempo: un paese represso, sfinito, percorso da fremiti sotterranei di violenza e desiderio, sull'orlo di un baratro. La vera "ossessione" non è solo quella carnale tra due amanti sfortunati, ma quella, più ampia e disperata, di un'intera nazione per una vita che le veniva negata. È un grido soffocato lanciato poco prima del crollo, l'elegia funebre per un mondo e, al contempo, il primo, abbagliante vagito di un cinema nuovo.
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