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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

I disperati di Sandor

1966

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La puszta ungherese, sotto il cielo lattiginoso e indifferente di Miklós Jancsó, non è un paesaggio. È una condizione esistenziale, una lavagna bianca e sterminata su cui il potere iscrive le sue spietate geometrie. Ne I disperati di Sándor (titolo originale, infinitamente più evocativo, Szegénylegények, "I senza speranza"), ogni carrellata, ogni movimento di macchina, ogni disposizione coreografica dei corpi non serve a narrare una storia, ma a dimostrare un teorema. Un teorema sulla natura della sottomissione, la cui eleganza formale è direttamente proporzionale alla sua crudeltà morale.

Siamo nel 1869, due decenni dopo il fallimento della rivoluzione di Kossuth contro l'Impero Asburgico. Le autorità imperiali rastrellano bande di presunti ribelli e fuorilegge, i betyárok, un tempo seguaci dell'eroe nazionale Sándor Rózsa. Ammassati in un forte improvvisato, un non-luogo fatto di poche baracche bianche che punteggiano l'orizzonte come ossa sbiancate dal sole, questi uomini vengono sottoposti a un processo di annientamento psicologico. Non è tanto la violenza fisica a dominare, quanto la sua metodica, quasi burocratica applicazione come strumento di persuasione. Il film di Jancsó, girato nel 1966, utilizza questa cornice storica come un velo trasparente, un pretesto quasi accademico per parlare del suo presente: l'Ungheria post-1956, schiacciata sotto il tallone sovietico dopo la rivolta di Budapest. Ma sarebbe un errore limitare l'opera a una mera allegoria politica contingente. I disperati di Sándor trascende il proprio tempo per diventare un saggio universale sulla meccanica del potere totalitario, un modello astratto e terribilmente concreto di come si possa piegare la volontà umana.

Lo strumento di questa dimostrazione è lo stile inconfondibile di Jancsó, qui portato a un livello di purezza quasi dogmatico. Il film è composto da una manciata di piani-sequenza magistrali, in cui la macchina da presa fluttua con una calma onnisciente e glaciale. Non c'è un punto di vista empatico, non c'è un personaggio in cui identificarsi. La camera è l'occhio di un dio crudele o, peggio, di un entomologo che osserva le sue cavie. Si muove in cerchi, in spirali, segue un prigioniero costretto a correre nudo fino allo sfinimento, si sofferma su un interrogatorio dove la minaccia è più potente dell'atto, arretra per rivelare disposizioni di uomini che ricordano le parate militari o, al contrario, un gregge in attesa del macello. Questa coreutica della disperazione trasforma la puszta in un palcoscenico panottico, un'arena dove non c'è via di fuga, né fisica né psicologica. Il paesaggio orizzontale, privo di appigli, diventa il complice perfetto della sorveglianza.

In questa prigione a cielo aperto, il sistema di controllo non si basa su mura, ma sull'informazione e sulla delazione. L'autorità, incarnata da funzionari anonimi in divise impeccabili, non ha bisogno di conoscere la verità; ha bisogno di creare un sistema in cui la verità è irrilevante e la sopravvivenza individuale dipende dalla menzogna e dal tradimento del compagno. È un gigantesco dilemma del prigioniero esteso a una comunità, dove la solidarietà iniziale dei ribelli viene erosa, molecola per molecola, attraverso un sapiente dosaggio di false promesse, privilegi minimi e torture psicologiche. Un prigioniero può ottenere una giacca migliore denunciando un altro; un altro può salvarsi la vita indicando un assassino, vero o presunto. La logica è quella di un esperimento di laboratorio, un'osservazione quasi scientifica della disgregazione dei legami umani sotto pressione.

Il parallelismo più immediato, quasi obbligato, è con l'universo di Kafka. Come ne Il Processo o Nella colonia penale, l'autorità è impersonale, le sue regole sono arcane e la colpa è uno stato preesistente che attende solo di essere formalizzata. Ma se in Kafka l'orrore nasce dal labirinto burocratico e dall'assurdo, in Jancsó nasce dalla trasparenza più assoluta. Tutto avviene alla luce del sole, in questo spazio aperto e accecante. La macchina della tortura non è un congegno infernale nascosto nei sotterranei, ma è il sistema stesso, visibile a tutti. È una logica che anticipa di un decennio le analisi di Michel Foucault in Sorvegliare e punire: il potere non si esercita più attraverso lo spettacolo della punizione esemplare, ma attraverso una disciplina pervasiva, una sorveglianza continua che interiorizza l'obbedienza.

L'uso del bianco e nero di Tamás Somló non è una scelta estetica, ma etica. Sottrae ogni calore, ogni distrazione cromatica, riducendo la realtà a un diagramma di forze, a un contrasto netto tra le uniformi scure degli aguzzini e il bianco delle camicie e delle baracche dei prigionieri. Un bianco che evoca l'innocenza ma anche la resa, la pagina bianca su cui il potere può scrivere ciò che vuole. Persino l'uso delle canzoni folk, che dovrebbero rappresentare l'anima indomita del popolo, viene pervertito: i prigionieri sono costretti a cantare e ballare per i loro carcerieri, trasformando un atto di identità culturale in una performance umiliante, un rito di sottomissione.

Forse, l'analogia più audace non è con il cinema, ma con il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Jancsó abolisce la psicologia tradizionale dei personaggi. Non sappiamo quasi nulla del loro passato, delle loro motivazioni. Sono corpi, presenze sceniche mosse da forze esterne, geroglifici viventi in un rituale sacro e profano al tempo stesso. Lo spettatore non è invitato a "sentire" per loro, ma a "comprendere" il meccanismo che li stritola. È un'esperienza intellettuale prima che emotiva, una richiesta di lucidità di fronte all'orrore. In questo, Jancsó si allontana radicalmente dal neorealismo o dal cinema di denuncia più tradizionale per approdare a un modernismo rigoroso e intransigente, più vicino a Bresson o al primo Pasolini di Accattone per la sua ieraticità, ma con una finalità squisitamente politica e sociologica.

Il finale, di una desolazione cosmica, sigilla il teorema. I prigionieri che hanno collaborato, illusi da una promessa di grazia e arruolamento nell'esercito, vengono condotti in un campo aperto e circondati. La macchina da presa si alza lentamente, rivelando la trappola in tutta la sua geometrica perfezione. Non c'è catarsi, non c'è speranza, non c'è nemmeno la dignità della ribellione finale. C'è solo la constatazione silenziosa che il sistema ha funzionato alla perfezione. L'individuo, la comunità, la lealtà: tutto è stato polverizzato.

Vedere I disperati di Sándor oggi è un'esperienza che lascia ammutoliti. È un film che esige una concentrazione totale, che rifiuta ogni facile consolazione narrativa. La sua freddezza può respingere, la sua astrazione può sembrare ostica. Ma è proprio in questa distanza, in questa lucida e spietata analisi formale, che risiede la sua potenza devastante. Jancsó non ci mostra la sofferenza per farci piangere; ci mostra la logica della sofferenza per farci pensare. E ci lascia con una domanda terribile, che risuona nel silenzio della puszta anche dopo i titoli di coda: di fronte a un potere così metodico e onnipervasivo, cosa resta della volontà umana? Forse solo la capacità di essere una pedina in un balletto funebre dove l'unica coreografia possibile è quella della sottomissione. Un capolavoro glaciale, necessario e eterno.

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